Sessantagiorni…e qualche hashtag di troppo

Sono passati 60 giorni. Sessanta giorni dal 4 marzo, giorno delle elezioni politiche, da quella domenica che ha consegnato alla Sinistra il peggior risultato dal dopoguerra e al Paese un quadro politico desolante che a oggi non consente una soluzione compiuta.

Una legge elettorale che ha visto il ritorno sostanzialmente del proporzionale, con una piccola parte di maggioritario. Un’Italia che ha consegnato alla Lega e al M5S un risultato importante, ma non sufficiente a garantire governabilità.

Due giri di consultazioni svolti dal Quirinale, il coinvolgimento dei Presidenti di Senato e Camera e un nulla di fatto. Non solo non ci sono scenari di Governo, ma a oggi nessuno si è seduto a un tavolo a confrontarsi con nessuno.

È del tutto evidente come la responsabilità di chi ha vinto spicca in questo contesto, mentre il Def attende una discussione, mentre il cronometro per disinnescare la clausola di salvaguardia (aumento Iva) corre e il quadro internazionale, l’economia, il lavoro, i provvedimenti attendono una guida che assuma scelte.

Abbiamo visto e sentito di tutto in questi due mesi, e purtroppo anche evocare metodi e linguaggio che hanno riportato le lancette della storia molto indietro, ma forse senza la statura di figure politiche che la storia italiana ha visto nel teatro della politica nazionale. I veti incrociati, la logica dei due forni.

Resta la saggezza e la statura del Capo dello Stato, un Presidente che certo sta valutando ancora le strade possibili e che lunedì svolgerà nuove consultazioni, ma che altrimenti sarà costretto a verificare la possibilità di un esecutivo di breve durata per far tornare il Paese alle urne.

E credo sia chiaro che in un fallimento così, di una legislatura mai partita non può esserci nessuno che si salva o si appella ad alibi improbabili.

Qualche editorialista in questi giorni parlava di una “Italia che si chiude in villaggi non comunicanti”, di una “arroganza proporzionale all’impotenza”…abbiamo visto un po’ di tutto. Ma temo, visto che entro poche settimane ci saranno importanti scadenze amministrative, che non sia ancora tutto.

Giovedì scorso si è svolta la direzione nazionale del Pd, dopo giorni di tensione, di dialettica. Una direzione che avrebbe dovuto verificare l’apertura di un tavolo di confronto con il M5S e che, invece, dopo l’intervista Tv di Matteo Renzi, ha cambiato di fatto il suo ordine del giorno. Quel percorso, la cui verifica era stata sollecitata con l’incarico dato al Presidente Fico dal Quirinale, non è stato nemmeno avviato e il lavoro di Maurizio Martina in quella direzione di fatto si è fermato.

Non ho mai pensato che tra noi e il M5S potessero esserci affinità tali da poter governare assieme per tante ragioni, ne ho scritto in più occasioni, ma ero invece convinta dell’utilità di sedersi a un tavolo, di rompere questo gioco del…”io con te non ci parlo”, e dell’opportunità di sfidarli su alcuni temi a noi cari e utili al Paese, e soprattutto di evitare un governo sovranista e populista.

Sfidare il primo partito del Paese, vedere le carte.

Credo ancora che sarebbe stato giusto lasciare alla direzione e magari a una consultazione dei nostri iscritti ed elettori una valutazione delle possibilità che avrebbero potuto aprirsi o meno.

Non posso sapere a cosa avrebbe portato, molto probabilmente a nulla, ma lo avremmo detto con cognizione di causa, anche rovesciando un po’ il tavolo e giocando da protagonisti.

Alla Direzione Maurizio Martina ha svolto una relazione che ho personalmente apprezzato e condiviso, sulla quale ha chiesto un voto di fiducia e un mandato pieno.

Ha parlato delle ragioni delle nostre sconfitte in questi anni, della necessità di rifondare il Pd con una adeguata analisi e con un pertinente pensiero per tornare a rappresentare il Paese reale (siamo apparsi come un soggetto elitario, distante).

Ha parlato dell’Italia, del bisogno di ripartire da una agenda sociale, ma anche della necessità di non chiuderci in una situazione di “irrilevanza”. Martina ha fatto anche un necessario passaggio sul Pd, su come si pratica e si agisce, sulla collegialità e sulla necessità di archiviare e bandire liste di proscrizione, aggressioni e toni violenti e incivili verso alcuni nostri dirigenti. Penso al sito che si richiamava a un hasthag “senzadime”, ad alcune pagine che presumibilmente hanno usurpato simboli e denominazioni, per aggredire esponenti della minoranza e chiederne l’espulsione, fino alle vere e proprie aggressioni davanti alla sede nazionale ai danni di Gianni Cuperlo e di altri.

Spero davvero che tutto questo si fermi, perché se non avverrà dobbiamo sapere tutti quanti che semplicemente questa comunità a cui abbiamo creduto, il Partito Democratico, non esisterà più. Esisteranno solo fazioni, tifoserie e forme di squadrismo da tastiera.

La direzione ha visto un dibattito franco, molto direi.

Il voto unanime sulla relazione del segretario ha sancito alcune cose, la conclusione di un capitolo che non abbiamo nemmeno potuto aprire, e cioè il confronto con il M5S, l’indisponibilità a un Governo con il centrodestra e il mandato al Segretario a verificare il nostro ruolo in contesti che potranno emergere per iniziativa del Presidente Mattarella. Poi ci sarà l’assemblea nazionale e immagino presto un congresso con più opzioni in campo. Opzioni non solo nominative, ma di scenario politico.

Spesso faccio un esercizio quando mi trovo in contesti di vita normale (a far la spesa, in treno, ecc..) osservo le persone e provo a chiedermi cosa possono pensare di noi, quanto può contare nella loro vita, nei loro interessi, nella loro percezione tutto questo, i nostri dibattiti, le nostre differenze. In questi giorni ci ho pensato spesso… e la risposta alla domanda la so io e la sapete voi come me.

Credo convintamente che o torniamo a contare nella vita delle persone, a essere percepiti come dimensione utile per l’evoluzione e la qualità delle loro condizioni di vita (un servizio che funziona, un mezzo in orario, la dignità del lavoro, un reddito dignitoso, una pensione giusta) oppure degli hashtag puoi fare un bel falò con tanti “marameo”.

Di quei marameo ne abbiamo ricevuti alcuni milioni in questi ultimi anni attraverso le schede elettorali. Non è successo perché “non ci hanno capito”, ma perché abbiamo compiuto degli errori, perché non si fidano più, perché abbiamo lasciato dei vuoti, perché altri sono risultati più credibili, e forse, certo, anche perché non abbiamo spiegato bene anche le buone cose fatte. Ma la colpa è nostra, non loro.

Prima ci facciamo i conti, e prima ricominciamo l’arrampicata per uscire da questa voragine.

E’ una arrampicata da compiere in fretta perché le urne si avvicinano di nuovo, i vincitori hanno ripreso i loro toni arroganti ed inconcludenti e c’è bisogno di un Pd che ricominci a salire con spirito ed energia nuova.

Buone cose a tutte e a tutti.

Susanna

5 thoughts on “Sessantagiorni…e qualche hashtag di troppo

  1. condivido , bella esposizione,
    ora ci vorrebbero delle idee per riprendere un po’ dei voti persi.

  2. Se qualcuno mi sputa in faccia e mi da delle schiafi no mi giro e mi abbaso le mutande.anzi

  3. Una analisi priva di logica e di spessore storico. Lo diceva Marx ma forse andrebbe letto: le idee che si formalizzano non vengono dal cielo ma sono determinate, in ultima istanza, dalle condizioni della realta’ storica. Qui sembra che si racconti una favoletta per bambini.
    1.C’era o non c’era la peggiore crisi economica della storia italiana? Boh
    2. C’e’ o non c’e il fenomeno immigratorio piu’ incontrollabile e meno facilmente governabile della storia europea? Boh
    3. C’e’ o non c’e’ una terrificante inefficienza dell’ apparato pubblico-burocratico allevato da corporativismi di vario genere, compreso quello dell’orrido garantismo clientelare-sindacale? Boh
    Senza una riflessione seria, rigorosa su basi scientifiche prima che ideologiche, rimaniamo ai boh e quindi ci possiamo trastullare in un chiacchiericcio da bar.
    Ma e’ questo che serve alla sinistra italiana ed europea?
    Io, su questo, non dico boh ma un fermissimo no.
    A buoni studi tutti insieme per uscirne tutti insieme come PD.

  4. Condivido pienamente la tua analisi, ti confesso che dopo 54 anni di militanza politica da semplice iscritto e volontario, faccio fatica a ritrovarmi in un partito il cui segretario (Renzi), dopo aver perso 2,5 milioni di voti ripetto alle politiche del 2013 e 5 milioni di voti rispetto alle europee del 2014, invece di prendere atto, fermarsi e consentire un avvicendamento volto a recuperare la collegialità (indispensabile e necessaria mio avviso per ripartire) pretende di dettare ancora agenda politica futura del partito.
    Ancora non ha capito (Renzi) che aver vinto le primarie ed il congresso non basta per essere credibile verso gli elettori.
    Aver portato il PD al minimo storico del 18% deve far capire a chi non vuole intendere, che la spinta propulsiva che nel 2014 aveva raggiungeto (per suo merito) il 41%, è finita fin dal 4 dicembre 2016 e ulteriormente confermata con interessi nel 2018.
    Faccio notare che Veltroni si dimise da segretario per aver perso le elezioni regionali in Sardegna.

    Carlo Emme

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