Gianni Cuperlo al teatro Ghione

“Grazie di essere venuti.

Credo sia un’occasione preziosa per ascoltarci e prendere assieme qualche decisione sul dopo.

Sarà una giornata ricca e con voci diverse.

Alcune più esterne, di quelle che aiutano a capire dove siamo.

Altre più “nostre”.

Di chi apre i circoli, amministratori che stanno in frontiera.

Del resto tra un mese e mezzo si vota in 4000 comuni.

E in Abruzzo, dove l’Aquila è una ferita aperta, e in Piemonte dove la Lega, per fortuna, è una ferita chiusa.

E dove Matteo Renzi aprirà oggi la rincorsa vincente di Sergio Chiamparino.

Noi siamo qui ma siamo anche con loro.

E poi ci saranno voci autorevoli che al congresso hanno fatto scelte diverse.

Ma il congresso è alle spalle, e c’è un tempo nuovo che incalza.

Io vorrei ringraziare tutti, uno per uno, e non è il caso, ma un’eccezione – una sola – la voglio fare per tante ragioni.

E allora dico grazie a Pier Luigi, perché averti qui è una gioia in più.

Di solito tre mesi nella politica italiana sono poco più che un lampo, un flash.

Invece gli ultimi tre mesi hanno cambiato molto.

Ora, almeno l’ambizione di chi guida il Paese è quella di un cambio radicale: nello Stato, nelle forme del potere, persino nel linguaggio.

Anche per questo il congresso è davvero finito.

Non si tratta di organizzarne la coda.

C’è bisogno di altro.

E vorrei dirvi che oggi siamo qui per questo.

Davanti a noi c’è un governo nuovo – nuovo in tutti i sensi – che è nato da un trauma doloroso.

Penso di saperlo.

A febbraio il Segretario del partito ha dichiarato esaurita l’emergenza guidata da Letta e ha indicato una diversa ragione di vita della legislatura da agganciare alle riforme e a un programma d’urto sulla crisi.

Noi avevamo chiesto un rilancio del profilo e dell’azione del governo che c’era.

Non è avvenuto e di fronte al rischio di uno stallo drammatico abbiamo riconosciuto la volontà di chi la guida del partito aveva conquistato solo alcuni mesi prima.

C’è chi ha giudicato quello un errore e chi un’assenza di lealtà nei confronti di Enrico.

La prima cosa può essere, anche se io non lo penso perché quella scelta era unicamente nell’interesse del Paese.

La seconda – vi prego di credermi – non è una critica giusta.

Perché verso Letta e quel nostro governo noi abbiamo avuto sempre – anche quando è stato più difficile – una lealtà assoluta che abbiamo anche pagato.

Ma non ne siamo pentiti.

Da lì comunque – da quel passaggio difficile – ha preso le mosse il nuovo che abbiamo davanti.

Ed è qualcosa che fa impressione.

Perché in un pugno di settimane si sono accese aspettative che abbiamo il compito di non deludere.

Si è prodotto un consenso vasto e centrato su nuovi termini: energia, dinamismo, velocità.

Il governo corre, giustamente.

E fa cose giuste, a cominciare dall’intervento sui redditi più bassi.

È vero, forse 80 euro non cambiano la vita, ma se sono un decimo del tuo reddito mensile di sicuro te la alleggeriscono un po’.

Dopo anni di tagli lineari e vacche magrissime quella è la strada.

Ora bisogna provare ad allargarla anche a quei pensionati che in questa crisi hanno perduto un quarto del loro potere d’acquisto.

E a chi è senza un lavoro.

E a quelli in fila alle mense popolari, che magari in tasca hanno ancora una carta di credito.

Ma vuota come svuotate sono le loro certezze.

Forse ne accennerà don Mapelli che a Milano di questa crisi non vede lo spread ma la sofferenza negli occhi di troppi.

E però, nonostante questo, il messaggio che arriva ha una forza: cambiare l’Italia.

E farlo – e anche questa è una novità – senza un conflitto vero all’interno, spostando quel conflitto “fuori da noi”, verso un’Europa miope.

Se volete, rovesciando l’europeismo degli ultimi dieci o quindici anni.

Non più la richiesta di sacrifici per entrare a testa alta in Europa.

Adesso la scelta è pigiare un altro tasto: l’orgoglio nazionale contro un’Europa che ha fallito.

Cambia lo slogan, e non è poco.

Quello di prima diceva: “fateci entrare, saremo all’altezza”.

Ora è: “avete fallito, vi indichiamo la strada”.

Il punto è che solo quella famiglia socialista che oggi è casa nostra può rendere questa battaglia credibile.

E la data è lì: il 25 maggio quando a decidere saranno milioni di elettori.

E a loro dovremo spiegare che Martin Shulz non è oggi il candidato di una Nazione, per quanto forte.

Ma il cardine di un processo democratico che è la sola barriera verso populismi generati da un collasso senza precedenti.

Certo, è una fotografia parziale, e però si accompagna a una cornice culturale.

E anche questa conta.

Perché se guardiamo a noi, al PD, conta un certo fastidio per il confronto all’interno.

E l’insofferenza verso le critiche, quando si manifestano.

Squinzi e la Camusso protestano?

“Ce ne faremo una ragione”.

Qualche firma autorevole critica l’impianto delle riforme?

“Non sono i professori a decidere”.

Ecco, se dovessi dare un suggerimento, quel riferimento ai “professoroni” facciamo conto sia stato un incidente, perché evoca stili e pratiche che non ci appartengono.

In ogni caso resta la novità.

Si rompe uno schema e l’ottica è diversa.

Oltre gli specialisti, lo spirito è saldare politica e bisogni, potere e società.

E siccome questa è una priorità, allora anche le riforme debbono fondersi con l’umore che prevale.

Sia chiaro: quelle riforme servono.

Per l’Italia sono decisive.

Ma servono buone riforme.

Dobbiamo dirlo nel modo più semplice: il punto non è difendere il Senato che c’è.

Il punto è che non cambi il Senato della Repubblica perché i senatori costano.

Lo devi cambiare perché non risponde a un’architettura moderna dello Stato che abbiamo in mente. E quindi a un disegno ambizioso che può certo anche prevedere un Senato non elettivo.

Ma devi spiegare perché.

Con quali contenuti, contrappesi, garanzie: perché in gioco è la democrazia.

E allora io dico attenzione: non conviene prima di tutto al governo piegare il confronto a un conflitto impotente tra innovatori e conservatori.

Perché non è così.

Perché migliorare le riforme è il modo più leale per aiutare il governo a fare delle riforme giuste.

In questo senso definire una riforma “blindata” è una contraddizione in sé.

Come la frase, “Si fa a questo modo o me ne vado a casa….”.

Che detta così è una manifestazione di determinazione, e persino di coerenza.

Però vedete, la forza mite della democrazia non è in questo.

E’ di più nella capacità, nella fatica, di orientare le scelte.

Di costruire il consenso intorno a quelle.

Perché poi la coerenza vive nel merito.

E allora – per dire – se sbagliava la destra a introdurre norme rischiose sul fronte dei diritti di chi lavora, quelle norme non diventano di colpo giuste se a proporle siamo noi.

Discutiamo, certo, sulla disciplina per il mercato del lavoro.

Ma se diciamo che alcuni aspetti di quel decreto vanno cambiati non è un modo per intralciare il governo.

È solo il dubbio, e qualcosa di più, che con quel tipo di soluzione cresca la precarietà, al di là delle intenzioni del ministro Poletti.

Si replica: “togliamo la causale perché è fonte di contenziosi, per cui meno lavoro agli avvocati e più chance ai giovani”.

Anche questa è una bella frase ma forse non funziona proprio così.

Forse se a un incrocio pericoloso un certo numero di pirati della strada passa col rosso, la soluzione non è togliere il semaforo ma dare qualche multa.

E lo stesso sull’apprendistato, dove non puoi togliere l’obbligo alla formazione scritta.

Perché senza formazione non si capisce di quale apprendistato si parla.

Poi io capisco che questo è uno degli esempi dove difendere dei principi può apparire un male peggiore rispetto al bisogno di dare lavoro a persone che altrimenti starebbero a casa.

Lo capisco. Ma anche qui diciamo attenzione.

Perché dietro questo riflesso c’è sempre stato il pericolo di abbassare la soglia dei diritti di chi è più debole, e di farlo in nome del suo interesse.

“Ti tolgo qualche diritto, figliolo, ma lo faccio per il tuo bene”.

Cosa c’è di più conservatore di questo paternalismo?

E’ un pericolo che Tony Judt ha descritto in una forma quasi letteraria.

Lui ha preso un pacchetto di riforme messe in campo dai governi progressisti negli anni ‘90 e che puntavano a ridurre la spesa sociale attraverso l’obbligo per chi cercava lavoro ad accettare un impiego entro confini certi, pena la perdita del sussidio.

Poi ha paragonato quelle norme a una legge inglese molto più antica. Si chiamava New Poor Law, e risale alla prima metà dell’Ottocento.

Per chi era senza lavoro la scelta era tra un impiego a qualunque salario o la reclusione all’ospizio dei poveri.

Ne parla Dickens nei primi capitoli di Oliver Twist.

E però poi la sinistra ha impiegato un secolo e mezzo a convincere milioni di persone che la povertà non è una colpa e che si è cittadini quando un corpo di diritti non rovescia sulle spalle di chi è più fragile il peso morale della sua condizione.

Allora io dico discutiamo.

Ma tutto sommato tra Carniti o Trentin e Sacconi non mi è chiaro perché dovremmo scegliere il terzo.

E lo stesso, vedete, credo valga quando parliamo di riforme costituzionali o legge elettorale.

Servono entrambe, e noi ci siamo fatti carico di far procedere il treno delle riforme.

Ma questo non deve impedirci di dire che la legge uscita dalla Camera non è ancora una buona legge e va migliorata su punti di fondo: liste bloccate, una soglia troppo alta per l’accesso al Parlamento, l’assenza di una norma sulla democrazia paritaria.

Quel treno doveva partire e abbiamo fatto bene a sgombrare i binari.

Ma – lo voglio dire qui – alla fine di quel percorso noi non possiamo votare qualunque cosa.

Perché in gioco sono principi scolpiti nella prima parte della Costituzione.

E allora su questo punto quando arriveremo al momento della verità – e parlo per me – non sono disposto a sacrificare la Bibbia costituzionale sull’altare di uno scambio. Quindi aiuteremo le riforme – con lo spirito più costruttivo – ma dobbiamo farlo rivendicando sempre i principi e il merito delle scelte.

Come vedete, è cambiato davvero molto e io penso che guardare questa novità per ciò che è sia la sola cosa giusta da fare.

Guai a noi se ci raccontiamo una realtà che non esiste.

Andremmo a farfalle nel momento in cui ci viene chiesto l’opposto.

Ci vengono chiesti realismo e concretezza.

E allora per realismo vi dico che non so voi, ma io nel mio partito non ero mai stato in minoranza.

Ora, in sé non c’è nulla di male.

D’altra parte le primarie quello hanno detto, e con tutta chiarezza.

Però c’è qualcosa che va oltre i numeri.

Che viene prima dei gazebo e vive anche dopo.

Ed è l’atteggiamento che hai verso le cose.

Non so come lo si possa chiamare.

Forse è lo spirito del tempo.

Però conta, soprattutto quando attorno le cose cambiano.

In questo il popolo dell’8 dicembre ha detto la sua senza giri di parole.

Ha detto, “abbiamo vissuto una stagione, adesso è giusto chiuderla. Lo facciamo con chi da quella stagione appare più lontano. Per i modi, il linguaggio. L’età. Non abbiamo certezze. E’ che vogliamo una speranza. E oggi la speranza sta lì”.

La sintesi è rapida ma rende l’idea.

Speranza, cambiamento, rottura di schemi.

Tutto di là.

La continuità col passato da questa parte.

E’ stata una chiave poco generosa?

Secondo me sì, e l’ho detto da subito.

Ma non saremmo sinceri se negassimo che quel sentimento, una ragione c’è l’aveva.

E non per le colpe di questo o quello.

E neppure per un episodio sugli altri.

No, io penso che un fondo di verità stava nel tempo che si è consumato senza che la sinistra abbia avuto l’ambizione di ripensare il mondo.

L’Europa e il mondo.

Lo so che la parola è generica: il mondo.

Però guardate che di quello si tratta: l’economia, le città, la vita delle persone.

E poi diseguaglianze e popoli liberati. E barconi e conflitti. E invenzioni e trapianti.

Il mondo è tutto ciò che fa del nostro tempo qualcosa di irriducibile al passato e di non detto sul futuro.

Ecco, a un certo punto è come se noi avessimo smesso di pensarlo il mondo.

Non è che non lo abbiamo studiato e in parte compreso.

Semplicemente abbiamo creduto che i margini per cambiarlo si fossero ristretti.

Così, all’improvviso.

Sì, potevamo raddrizzare le cose, migliorarle.

Ma cambiarle davvero, radicalmente, no.

Quella era una prova troppo grande per noi.

Era un mestiere da profeti.

O da “papi”.

Ma non più della politica.

Io penso che una parte dei problemi viene da lì.

Da questo pudore, o timore.

O se volete, da questo realismo.

Prendete il pareggio di bilancio in Costituzione.

Quello è un punto di vista. Una teoria.

Ditelo a uno studente che passa i pomeriggi su Keynes e vi dirà, “ma che roba è!”.

Tu metti quel vincolo – come un cappio sulle scelte dei governi – e quando ti piove addosso una crisi tipo questa che fai?

Keynes, che era un liberale, lo ha spiegato nell’altro secolo.

Quando le cose vanno, l’economia allunga, la gente lavora, è bene che lo Stato sia misurato e guardi lontano.

Ma se l’economia è sott’acqua e hai il 13 per cento di disoccupati, allora lo Stato che predica il rigore il Paese lo uccide.

E però non è un dettaglio, e fanno bene Fassina e D’Attorre a voler discutere quella norma.

Perché poi possiamo parlare di tutto: di mercato del lavoro e welfare e innovazione.

Ma come ci siamo arrivati noi a votare il pareggio di bilancio nella Costituzione?

Me lo chiedo perché è giusto criticare l’Europa della burocrazia e di parametri senz’anima.

Ma avrà un peso se per anni quella visione – quella politica – noi in parte l’abbiamo subita?

Perché se tu ti alzi e punti il dito contro una linea che ha fallito, quello che hai detto e che hai fatto prima conta.

E’ se per un certo tempo tu accetti le regole e la morale degli altri – se al massimo coltivi l’ambizione a spezzare il loro discorso con la tua punteggiatura – poi viene un giorno dove anche dire la verità può non bastare.

E allora il punto non è che hai perso un’elezione.

Pesa un’altra cosa. Prendiamolo come un insegnamento sul dopo.

Pesa che non puoi mai rinunciare al racconto del mondo per come ancora non è.

La sinistra è questo.

E’ sempre stata questo.

Poi certo che in questi trent’anni l’onda della destra è stata alta.

E una sinistra che quell’onda ha cercato di cavalcarla c’è stata, e ha avuto anche successo.

Ma l’onda non l’ha dominata.

E questo conta.

Giorni fa, Alain Touraine, con la saggezza dei vecchi, ha detto che dietro il voto francese vede l’assenza di un pensiero politico.

I socialisti, secondo lui, torneranno a vincere quando sapranno declinare il tema di una nuova modernità.

Se resta legata agli anni ’80 e ’90 – chiudeva Touraine – la sinistra perde.

E’ incredibile come un uomo di novant’anni ti dica che le categorie della sua vita non servono più a cambiare le cose.

Mentre la sinistra – la parola “sinistra” – esiste se è capace di rinnovarsi altrimenti recita un copione che non attira spettatori nuovi.

Quel rinnovamento, però, non è solo un vocabolario più smart.

La riscossa è un’altra idea dell’economia.

Della crescita.

E’ l’idea che hai della democrazia, e le forze che su quell’idea riesci a mobilitare.

Ma come la intendiamo noi la democrazia in questo tempo segnato persino da una diversa umanità?

Più frammentata. Eppure dotata di risorse sconosciute finora.

E’ un cambio antropologico, dicono alcuni.

Comunque lo chiami è un mutamento che si trascina appresso le nozioni della vita, del corpo, della coscienza che milioni di persone hanno di sé.

Non è materia dei filosofi.

O forse sì, ma non solo.

A dire queste cose è il pensiero progressista più radicale.

Ci dice che bisogna costruire società dove un corpo di diritti fondamentali diventa l’anima della democrazia.

Diritti legati al rispetto della vita e della dignità e che nessuna logica della finanza può calpestare.

Che nessuna speculazione può ridurre a mercato.

Che nessuna maggioranza può sequestrare.

E lasciatemi dire che è vero – noi abbiamo perso un referendum impossibile – ma la Corte Costituzionale ha letteralmente smontato quella legge assurda sulla fecondazione assistita.

E dunque, forse, un fondo di ragione ce l’avevamo.

Ma per questo. Perché è la democrazia a trasformare gli individui in cittadini, e questa è anche la premessa di una rinascita dell’economia e della società.

Il punto è come fare di tutto questo una battaglia che riguarda la nostra visione dell’Europa.

Perché non puoi ridurre tutto a trattati e spread.

A metà dell’altro secolo l’Europa cambiò verso – e dio solo sa se lo cambiò per davvero – piantando un cuneo tra barbarie e civiltà.

Tra la guerra e la pace.

Tra sciovinismi e integrazione.

Non è stato un accidente della storia ma una politica.

Ma noi, oggi, possiamo fare a meno di qualcosa di simile?

Di diverso nella sostanza ma di eguale nell’ambizione?

E allora vedete, l’idea che destra e sinistra non abbiano più un senso perché i valori sono gli stessi e contano solo le soluzioni, è una strada che non guarda avanti ma insiste nell’errore di ciò che abbiamo alle spalle.

Insomma chi è più moderno, chi è più immerso in un tempo come il nostro?

L’eredità di Bobbio e la descrizione di una società dove non tutti hanno uguali diritti e dove quella diversità consegna un’anima e un corpo alla politica?

O i filosofi di un mondo piatto, dove delle diseguaglianze al massimo si può mitigare l’urto?

E basta la velocità, basta la rapidità, a sciogliere questo nodo?

Che poi anche la rapidità ti fa pensare.

E ti chiedi di cosa davvero si parli.

E’ la rapidità dei gesti, delle parole, o la velocità nel capire la vita delle persone?

Guardate, giorni fa la direttrice del Fondo Monetario ha concesso una lunga intervista al Corriere della Sera.

E’ piena di cose giuste, ad esempio, sul lavoro delle donne come replica ai guasti della crisi.

Poi, quasi alla fine, si faceva cenno al dialogo sulle ingiustizie tra il presidente Obama e il Papa.

E la domanda era dove si colloca il Fondo Monetario in un confronto così decisivo sulla distribuzione del reddito.

E la risposta colpisce.

Perché la Signora Lagarde dice che da tempo loro a Washington se ne stanno occupando. Con delle ricerche molto serie.

E spiega che quelle equipe di analisti sono giunte a due conclusioni.

La prima è che le diseguaglianze dei redditi non favoriscono la crescita.

La seconda è che l’idea che la redistribuzione del reddito non aiuta la ripresa dell’economia, con ogni probabilità, è un’idea infondata.

E a quel punto uno ha un sollievo.

Ma poi ti fermi un istante e rifletti.

E ti dici, ma come? Sette anni di crisi.

Un ceto medio sradicato.

Un paio di generazioni sul ciglio.

L’Europa capovolta.

Ecco non si poteva capire prima che dietro questo c’erano esattamente le conclusioni alle quali “ricerche molto serie” sono approdate ieri?

Se volete, la nostra domanda è: ma perché la rapidità deve valere quando si tagliano i salari e le pensioni.

Mentre il viaggio mentale di una classe dirigente nel comprendere il peso delle sue scelte è sempre così incredibilmente lento?

Lo so che la domanda è retorica.

Ma la risposta no, e sta quasi tutta in una parola antica. Che è la politica.

Se la politica arretra, si ritrae, il mondo verrà governato da logiche diverse, e a volte lontane dal diritto e dai diritti, dalle libertà e, al limite, dalla democrazia.

Non è poco.

Ma è anche questo che giustifica il senso di ciò che siamo.

Se scegliamo di non essere una minoranza.

E tentiamo di essere nuovamente un pensiero.

E un pensiero sul mondo.

E su questo nostro paese che non si salva continuando a svalutare il lavoro nella combinazione tra ricchezza privata e miseria del pubblico.

Per salvare e cambiare questo Paese non basta un nuovo patto democratico: serve un nuovo patto sociale.

Tra il Nord e il Sud.

Tra le generazioni.

Perché la vera pacificazione non è tra noi e la destra, ma tra gli italiani e la democrazia.

*

Per tutte queste ragioni, credo abbia ragione Alfredo Reichlin quando spiega perché il Paese si salva se si salva da sé.

Per dove siamo arrivati e per ciò che siamo, questa è la prova che ci sta davanti.

E che segnerà il destino della generazione che oggi ha fatto il suo ingresso sulla scena del potere.

Matteo Renzi è la guida di questo processo.

Va sostenuto e aiutato.

A fare scelte giuste e buone riforme.

Ma la ricostruzione del Paese – la ricostruzione di un’etica pubblica, di una democrazia indebolita – questo non lo fai se tu non ridai un potere al popolo.

Non lo fai se al popolo non restituisci la parola e la certezza che torna a contare e a condividere un pensiero, una lingua, una meta.

Francesco rivoluziona la Chiesa anche perché al suo popolo restituisce tutto questo.

Se lo fa il Vescovo di Roma possiamo non farlo noi?

E allora torna l’idea del tempo che abbiamo da attraversare.

Provo a dirvelo a modo mio, per come lo sento.

Veltroni ha dedicato a Berlinguer un film molto intenso.

Sono passati trent’anni da quelle vicende ma chi ha conosciuto l’uomo e il leader una volta me lo ha descritto così: “Lui era in questo mondo, ma non era di questo mondo”.

Voleva farmi capire quale fosse la radice del suo essere un uomo di parte.

E per molti versi di una parte sconfitta.

A noi è dato un tempo diverso.

Io credo che noi dobbiamo essere fino in fondo “in questo mondo e di questo mondo”.

Ma questo non vuol dire subirlo com’è.

Non vuol dire rendere al massimo le cose un po’ meno ingiuste.

Non vuol dire tornare a un accesso patrimoniale alle cariche elettive.

Ma noi, quanti precari o disoccupati, quanti operai, quanti giovani con un paio di master eleggiamo con le primarie?

Qualcuno sì. Per fortuna e per merito loro.

Ma qualcuno.

E allora nessuno qui vuole tornare ai miti e riti di prima.

Sappiamo che la missione del nostro tempo è cambiare l’Italia e ricostruirla, come è accaduto in un’epoca lontana.

Ma se parliamo di questo servono la sinistra e la politica.

E però se questa è l’impresa non ha senso riparare ciascuno in un cortile più piccolo e sicuro.

Serve aprirsi, allargare il confronto e la sfida.

Serve rinunciare noi per primi all’idea che la sorte di un grande partito riformista stia tutta dentro le mura delle istituzioni.

Perché non è così.

Perché tanto di buono è fuori da quei palazzi.

Perché certo che contano le decisioni del Parlamento ma non solo. Conta la presenza nella società, l’idea di partito che hai.

Perché ci abbiamo messo vent’anni, ma dovremmo avere capito che se tra il potere e la vita delle persone non c’è una terra di mezzo – non ci sono movimenti e forze sociali e interessi organizzati – alla lunga quel potere è più fragile.

Ed è più esposto a un antiparlamentarismo che nella storia lunga dell’Italia e dello Stato veramente sconfitto non lo è stato mai.

*

Per tutte queste ragioni io penso che noi possiamo uscire da qui oggi con una indicazione chiara.

Nel senso che se davvero è cambiato molto e se una specie di rivoluzione si è affacciata, ecco se è così la domanda è come piegare questa rivoluzione nella direzione giusta.

Almeno se vogliamo collocare in questo nuovo inizio i valori di un riformismo che non conosca le subalternità culturali degli ultimi 15 o 20 anni.

Io penso che lo si debba fare con degli impegni e alcune tappe, anche organizzative.

Tappe che discuteremo, ma che in questi mesi mi sono state chieste da tanti come lo strumento per rimettersi a camminare.

Per questo entro l’estate vorrei ragionare con voi di due appuntamenti.

Uno sul mondo che cambia.

Penso a quanto poco alziamo lo sguardo anche noi.

Verso quello che accade tra Mosca e la Crimea, o nel cuore del Mediterraneo: e l’impatto che tutto questo avrà sull’Europa.

Oppure – ne ho accennato – penso all’impatto di un pontificato che pare orientato a incidere su vincoli secolari di dottrina, in una logica con la sua stessa genesi (le prime dimissioni di un Papa dopo 7 secoli) e in coerenza – come lui stesso dice – con la parola del Vangelo.

L’altro appuntamento che potremmo tenere prima dell’Assemblea Nazionale dedicata allo stesso tema, dovremmo rivolgerla a una fotografia onesta del partito.

Di cosa siamo e cosa saremo.

E qui le cose più giuste credo le abbiamo dette noi.

Abbiamo detto che non potremo essere mai solo una somma di comitati elettorali, perché è una logica che già ora ci divora dall’interno.

Per reagire servono due condizioni, ed è l’ultima cosa che vorrei dirvi.

La prima è organizzare un campo. E un cammino.

Guardate, lo so: mi è stato rimproverato di non avere accelerato il passo su questo punto.

Se non è accaduto sarà anche perché l’organizzazione non è il mio forte: ma quel limite – credetemi – è nato solo dalla volontà di unire.

Di tenere assieme questo campo. E se possibile allargarlo.

Io credo nell’unità tra di noi, ma penso anche sia un dovere difendere le idee nelle quali crediamo.

E allora per primo io voglio dirvi che questo viaggio va proseguito ma non può essere un viaggio solitario, dove ognuno marcia per sé.

Io lo vorrei fare con una leadership plurale, fatta di donne e uomini, di giovani e di esperienze.

Vorrei farlo con i profili più autorevoli del gruppo dirigente che c’è.

Ma soprattutto dando valore ai territori, a chi la politica la organizza con passione.

Per questo oggi io voglio ascoltare ma vi dico fin da ora che dobbiamo uscire da qui con l’impegno a dar vita ai Comitati promotori di una sinistra democratica e rinnovata, che stia dentro questo nuovo inizio.

Comitati aperti, inclusivi: in ogni città e – perché no? – in ogni circolo, per raccogliere una parte del tanto di buono che è fuori da noi.

E, con lo stesso spirito di apertura, penso a comitati per temi, campagne, progetti.

Perché il partito che sarà non tornerà più quello di prima.

Ed è giusto sia così.

Che il cambiamento avvenga.

Ma devi capire come affrontarlo.

Come traduci nella concretezza la tua concezione dei diritti (umani, civili, sociali).

Come immagini una nuova economia al servizio della persona, e non il contrario.

Come ripensi le forme della partecipazione.

Insomma io vorrei proporvi di pensare e costruire una rete a maglie larghe, che si sappia incontrare, organizzare.

E unire.

Insisto: unire.

Mi diceva Bersani giorni fa: “questo è il tempo di gettare le reti, la raccolta verrà più avanti”.

E ha ragione, ma proprio per gettare quelle reti noi dobbiamo allargare il campo e ripartire.

Perché è il solo modo per far avanzare idee, contenuti, persone.

Poi guardate – e questa è l’ultima nota – sappiamo tutti che al congresso la nostra mozione ha avuto il sostegno di culture e componenti diverse.

Io non solo le rispetto, ma le ringrazio.

Tutte.

Così come rispetto e ho da imparare da associazioni che già ci sono – penso al percorso di “Rifare l’Italia” – ad altre che stanno nascendo come l’Area Riformista, o il “Campo Democratico” di Goffredo, e altre ancora che magari si formeranno.

Ma io sento il dovere di chiedere a tutti noi una generosità di questi punti di vista.

Facciamo ogni fatica per unire e per unirci.

E almeno io continuerò a lavorare per questo.

Ma detto questo, sento il dovere verso chi questa ripartenza la vuole di riprendere il cammino.

E farlo subito, prima che alcuni scelgano la via di un ritiro silenzioso.

Perché magari non debbono candidarsi ad alcunché ma pensano che in un partito-collettivo si milita se c’è una nuova frontiera da raggiungere.

Davanti a noi ci sono potenzialità che a volte neppure vediamo.

Noi dobbiamo sentire l’ansia, l’angoscia di riprendere la via.

Perché le idee sono belle ma se ami la politica devi sapere che le idee camminano sulle gambe delle donne e degli uomini.

E quindi apertura certo, ma costruiamo una rete associativa di idee, campagne – diamoci assieme gli strumenti per combattere – perché senza un metodo, senza riferimenti, senza luoghi dove discutere e agire anche lo slancio più sincero fatica.

L’ho toccato con mano in assemblee partecipate a Bologna, Torino, Milano. E altre ne faremo nelle prossime settimane.

Sono momenti fondamentali, perché o noi usciamo – tutti noi – dal quadrilatero dei palazzi romani e torniamo a costruire cultura politica e a fare democrazia da Nord a Lampedusa, o facciamo questa scelta o saremo risucchiati in una logica del potere fine a se stesso.

Ma in quel caso, io penso, non saremmo più noi.

Guardate, lo so che dopo una battaglia persa è più difficile.

Ma sento che abbiamo perso delle primarie, non abbiamo smarrito il senso di una sinistra da reinventare.

Servono fantasia, coraggio, passione.

Poi saranno le nostre scelte, le nostre coerenze a dire chi siamo. E quanti siamo.

E il problema – credetemi – non è questa o quella persona.

Ma davvero pensate che non sappia io per primo che dobbiamo lavorare a una nuova generazione che per altro già è in campo e dà buona prova di sé?

Mi permetto solo di dire che conviene farlo nel nome di una visione, non di un gruppo o di una componente.

Tutto qui, però credo sia molto.

Lo penso perché se non vogliamo ridurre la crisi della democrazia a una questione di procedure, dobbiamo avere il coraggio di andare oltre i nostri limiti.

E si può fare.

La ricordate quella storia, o leggenda, dell’aquila e del tacchino?

Pare che se disegni un cerchio di gesso intorno a un tacchino, quello resta prigioniero e non è capace di uscire da quella prigione immaginaria.

L’aquila, invece, è tra gli animali più longevi: vive 30 o 40 anni.

A quel punto però il becco e gli artigli sono così deboli che non riesce più a cacciare le prede.

Anche le ali sono più pesanti, le penne sono invecchiate, e le diventa difficile persino alzarsi in volo.

A quel punto l’aquila è davanti a una decisione.

Può lasciarsi morire oppure affrontare una rinascita dolorosa che la porterà a una seconda esistenza.

Se lo fa – se compie questa seconda scelta – sbatte il becco contro le rocce fino a distruggerlo e poi aspetta con pazienza che si riformi.

Quando avrà un becco nuovo potrà strapparsi le unghie vecchie e quando anche quelle saranno ricresciute si libererà anche delle vecchie penne.

Poi alla fine di questo sforzo incredibile – passati cinque mesi – finalmente spiccherà il volo e tornerà a vivere.

Anche se in modo molto meno doloroso, forse qualcosa del genere vale per noi.

Accettare l’idea del mondo di chi ci disegna un cerchio attorno oppure cambiare tutto quello che dobbiamo cambiare ma per tornare a scegliere?

Pier Luigi, almeno io quella cosa del tacchino sul tetto l’ho sempre letta così.

Come l’idea che dopo il congresso, le primarie e tutto quel che è stato, noi dentro il cerchio non siamo nati per restarci.”

One thought on “Gianni Cuperlo al teatro Ghione

Lascia un commento