Guido Tampieri è nato a Massalombarda (Ravenna) nel 1948. Laurea in giurisprudenza all’Università di Bologna. Dal 1983 al 1990 è stato Assessore all’Agricoltura della Provincia di Ravenna. Eletto nel 1992 nel Consiglio Regionale dell’Emilia-Romagna, dove è stato componente delle Commissioni “Bilancio e programmazione” e “Attività produttive”. Assessore all’Agricoltura della Regione Emilia-Romagna dal 1993 al 2005. Assessore all’Agricoltura, Ambiente e Sviluppo Sostenibile della Regione Emilia-Romagna nella legislatura 2000-2005. Membro del Consiglio di Amministrazione del CRA, Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura,su nomina del Ministro delle Politiche Agricole e Forestali, dal marzo 2001 . Sottosegretario di Stato al MIPAAF con delega al rapporto con le Regioni ed al CIPE dal maggio 2006 al maggio 2008. Da luglio 2008 è Presidente del Centro di Divulgazione Agricola della Provincia di Bologna. E’ autore del libro “Una nuova frontiera di libertà. Culture e politiche per un futuro sostenibile” Quaderni Infea Emilia-Romagna, 2005.
Cassandra, Pangloss e la riconquista della saggezza. “Big changes are going on, amico mio.”Le attonite parole con cui la guida di Paolo Rumiz commenta i mutamenti biblici in corso davanti ai suoi occhi, in quel “Grand hotel sull’orlo dell’abisso” dove i ghiacciai si ritirano e si apre il mitico passaggio a nord-ovest, sono la testimonianza dell’imprevidenza umana e la confessione della nostra impotenza: di fronte al mutamento del clima, come su tante altre cose, non sappiamo bene cosa fare.
Per decidere che è tempo di cominciare a cambiare un po’ il mondo non è necessario essere dotati di particolare sensibilità ecologica, basta essere intelligenti.
Il primo passo da compiere è culturale- direbbe Amartya Sen – comprendere la natura del problema. Quello successivo è politico- secondo la formula cara ad un altro grande economista classico Joseph Sterglitz- rivedere i fondamentali della crescita.
Lo sviluppo sostenibile, la “durabilitè” del modello di produzione e consumo, la capacità di produrre ricchezza e di ripartirla equamente preservando i beni naturali che ne sono a fondamento è la questione del secolo. Da come sapremo affrontarla dipende il futuro. Questa è la sfida che impegna le società moderne e ognuno di noi.
Dentro ogni decisione, grande e piccola, che prendiamo, c’è “un frammento di sostanza ecologica”,
E’ la prima volta che accade , in questo tempo nuovo, nel quale la storia del genere umano pulsa con ritmi così intensi e accelerati da sovrapporsi alla storia della natura, fino ad alterarne il corso millenario. “Mai come ora – scrive Umberto Eco- tre degli elementi primordiali sono minacciati: l’aria, uccisa da polluzioni e da anidride carbonica, l’acqua, che da un lato si impesta e dall’altro lato si avvia a mancare sempre più. Solo sta trionfando il fuoco, sotto forma di un calore che inaridisce la terra sconvolgendo le stagioni e, sciogliendo i ghiacci, inviterà i mari ad invaderla.
Senza rendercene conto marciamo verso la prima e vera ecpirosi”. Umanisti e scienziati preconizzano un futuro prossimo minacciato da una conflagrazione universale causata dall’ordinario modello di vita di miliardi di persone. Dobbiamo prendere sul serio quel messaggio evitando di rimanerne schiacciati.
Il pensiero che il mondo stia finendo è così terribile e soverchiante che si preferisce rimuoverlo. Accade di frequente, quando la predizione non ci piace. Troia non sarebbe caduta se i suoi abitanti avessero ascoltato Cassandra. L’innocente figlia di re Priamo ebbe invece in sorte una triplice condanna: di vedere il futuro, di non essere creduta e di venire considerata, per l’eternità, una menagramo capace di inverare le proprie, tragiche visioni. Colui che sta andando verso un precipizio, ammonisce Pascal, si costruisce dei paraventi artificiosi che gli impediscono di scorgerlo. Quello che non vogliamo vedere, in realtà già lo vediamo, ma ci inquieta, ci accusa, ci carica di responsabilità. Che preferiamo rinviare. Non è che non crediamo ai rischi ecologici, è che non ci crediamo al punto di cambiare rotta o che non crediamo alla possibilità di farlo, non con un esercizio di virtù individuale solamente. Bisogna diffidare di chi dice che il compito è facile. Se lo fosse, lo avremmo già portato a termine. Non esistono grandi domande ed efficaci risposte senza rischio, individuale e collettivo. Si teme di compromettere quello che si ha, le proprie certezze, si può approdare a sponde più ospitali o annegare nella confusione. L’impegno che abbiamo davanti è difficile perché ci sospinge al cuore delle contraddizioni dello sviluppo che ci ha dato il benessere. Le risorse scientifiche di cui disponiamo per affrontarlo sono grandi ma quelle etiche, culturali e politiche sono fragili.
La nostra generazione, io credo, non è peggiore di quelle che l’hanno preceduta.
E’ l’esperienza del negativo che stimola la ricerca del cambiamento. Marx l’avrebbe spiegato con ben altro rigore scientifico ma il fatto è che chi è sazio non ha fame.
Il rispetto, il risparmio, il buon uso, il riuso, la riparazione, i comportamenti propri della cultura virtuosa di un tempo erano l’espressione spontaneamente preservativa di uno stato di necessità, non il frutto di scelte esercitate nel regno delle libertà, il cui avvento avrebbe dilatato la terribile e sublime capacità di scelta degli esseri umani fino alle sorgenti stesse della vita. Le conquiste della conoscenza, che sarebbero diventate tecniche di intervento sulla natura via via più penetranti, non esigevano di porre limiti alla crescita; i beni fondamentali, terra, aria, acqua erano “liberi”, la possibilità di comprometterli, remota, non percepita, forse non percepibile, non chiamava in causa la responsabilità collettiva di regolare altrimenti il presente per salvaguardare il futuro. Non c’è “colpa” individuale nell’aver aderito a un modello di sviluppo continuo che sfrutta le risorse sull’altare di un benessere materiale alimentato dai consumi. Non c’è “colpa” per uno sviluppo della tecnica che assolutizza il presente e svuota il futuro del suo significato. E’ importante sottolinearlo perché non è facendo richiamo ai sensi di colpa ed ai divieti che susciteremo le straordinarie energie di cui c’è bisogno per correggere i caratteri dello sviluppo. I divieti sono a volte necessari, rispettarli è, esso pure, un valido esercizio di autodisciplina, ma ciò di cui abbiamo bisogno è una esaltazione della responsabilità personale, non una sua compressione. Responsabilità e libertà sono le leve del cambiamento.
La responsabilità, per dirla con Edgar Morin, di “cominciare dappertutto e nel medesimo tempo”. La responsabilità di cominciare subito. Il mondo cambia molto più rapidamente ed intensamente di quanto pensassimo. Adesso sappiamo che c’è un’interdipendenza fra i nostri comportamenti e il degrado dell’ambiente, che dobbiamo essere prudenti perché la nostra capacità di fare supera quella di prevedere e governare gli effetti delle nostre azioni e, infine, che nessuno ci rimetterà i nostri debiti ecologici. Tocca a noi agire: siamo liberi di farlo, ne abbiamo la possibilità, ne portiamo la responsabilità. Di qui in avanti, ogni giorno di più, l’inazione sarà colpa.
Ci sarà sempre chi, come il Pangloss di Voltaire, sosterrà che questo è il migliore dei mondi possibili, che bisogna credere ciecamente nel progresso, che l’età media è pur sempre cresciuta, che l’effetto serra migliorerà le cose, che la terra può nutrire altri miliardi di persone, che possiamo continuare così, come se niente fosse, sospinti da un ottimismo leibniziano che non rivede la propria concezione del mondo nemmeno di fronte all’evidenza.
Ma le cose non stanno così. “Big changes are going on, amico mio”. Quelli che, una volta erano effetti collaterali del progresso, il prezzo inevitabile e tutto sommato accettabile da pagare al nostro benessere sono diventati fattori così forti, diffusi, minacciosi, incombenti da rappresentare, oggi, una ineludibile questione centrale che può compromettere la qualità delle nostre vite, ostruire il sentiero del progresso, condizionare la perpetuazione delle nostre conquiste e delle nostre libertà. Bisogna chiamare un time.out e, forse, tornare un po’ indietro per andare avanti. No, non al ripudio della scienza, all’abiura della modernità, alla paura dell’innovazione. Non si tratta di rimettere in discussione i risultati del ventesimo secolo. Dobbiamo saper misurare ed apprezzare il cammino percorso nell’intreccio tra sviluppo e libertà, non possiamo gettare via, come mette in guardia dal fare Ulrich Beck, assieme alle contraddizioni della modernità, il suo intero progetto.
“La coscienza scientifica senza coscienza sociale è vuota” ma “la coscienza sociale senza coscienza scientifica è cieca”. Abbiamo bisogno dell’una e dell’altra .
La condizione cui bisogna tornare, io credo, è quella dell’inquietudine della ricerca.
Il dubbio, l’esitazione, la precauzione non sono il contrario della decisione, sono la sua qualificazione e la sua miglior garanzia. Il decisisionismo è l’ostentazione caricaturale della decisione, che è espressione di idee, ispirate da valori e sorrette da principi. Tra essi, compatibile e armonizzabile con gli altri che abbiamo assunto a riferimento delle nostre vite ed a criterio della emancipazione umana, l’ecologia.
Il cambiamento non verrà da sé :”O uomo di necessità imperiose – ci ammonisce un poeta indiano- tu pensi di far crescere una pianta tirandogli le foglie?”. Serve un cambiamento nel modo di vivere il mondo, uno spostamento dell’asse dei nostri pensieri e delle nostre azioni. Serve saggezza per parlare con gli uomini, saggezza per tornare a parlare con la terra. E’ un’umanità che non si prende più cura della terra, tutte le cose diventano merce. L’incapacità di amare il prossimo e di custodire la terra sono, se ci pensiamo, espressione della medesima avarizia di sé, di una chiusura nella dimensione privata che restringe lo spazio delle legature umane e ripiega il tempo sul proprio progetto di vita.
Il nostro rapporto con gli uomini e con la natura è tutto uno strappa e ricuci, del bel vestito si rischia non rimangano che brandelli. Dobbiamo ritrovare il gusto del futuro, la capacità di pensarlo, fabbricarlo,”con sguardo lungo e dunque vera speranza”.
Noi abbiamo bisogno di coltivare un’idea di futuro almeno quanto le nuove generazioni di confidare nella nostra saggezza ecologica. E’ il futuro che ci aiuta a costruire il presente, a riempirlo di progetti di vita. Dobbiamo riuscire ad esprimere una visione universalistica delle cose, nella quale tutto si ricompone ab initio anziché frammentarsi e reincollarsi precariamente, economia e ambiente, tecnica e uomo.
Dovremo far funzionare la globalizzazione come, finora, non è stato, ricercare un equilibrio, locale e planetario, perché siamo una comunità di destino. Dovremo “ripristinare un rapporto tra etica ed economia, che non neghi ma nemmeno riduca tutto a profitto”.
Adam Smith ci ha detto che è all’interesse, non alla benevolenza del panettiere che dobbiamo il pane quotidiano. Ma ci ha anche insegnato che il meccanismo funziona fino a quando la prudenza prevale sulla prodigalità, ovvero finché la responsabilità verso il futuro prevarrà sull’uso dissipatorio delle risorse. Servirà una nuova immaginazione etica (Baumann), un umanesimo trascendente ( Ruffolo, Jonas). Servirà la buona politica. Quella capace di suscitare speranza e adesione, di avere visione, di formulare pre-visione, di farsi progetto. L’ecologia è una scelta obbligata ma rischia di restare un’astrazione se non viene riempita di obiettivi, di strumenti e di comportamenti.
Se in un immaginario referendum ad ognuno di noi venisse chiesto di scegliere tra la rinuncia alle nostre consolidate abitudini e la rovina del mondo, io credo che l’ ”egoismo colossale” che, secondo Shopenhauer, “sovrasta il mondo”, vacillerebbe ed i più sarebbero disposti a farlo. La vera questione, a me pare, non è una astratta, aprioristica ancorché problematica disponibilità da acquisire ma la sua organizzazione oltre la dimensione individuale, che la politica deve comporre in un disegno capace di conquistarla. Attraverso la conoscenza delle cose, la consapevolezza delle connessioni, la ponderazione dei vantaggi, la fissazione degli obiettivi, la prospettazione delle alternative, la quantificazione dei costi, la fissazione dei tempi. E’ così che si alimenta la fiducia nella possibilità di costruire un mondo in armonia con la natura, è così che comportamenti privati e pubbliche virtù si congiungono.
Possiede, la politica, l’apertura mentale, la continuità, la serenità, la capacità, la cultura, la visione, il tempo, il coraggio per guardare oltre il presente, l’immediato, il facile, lo scontato, l’ammiccante, il conveniente, oltre ciò che ha ereditato, per adottare il futuro, per garantirne uno anche ai nostri nipoti? E’ una domanda che esitiamo a porre per timore della risposta. I ”grandi” del mondo prendono tempo assumendo impegni non impegnativi su periodi lunghi, quando nessuno di essi ci sarà più a doverne rispondere. Vertice dopo vertice, decisioni, direbbe Holderlin, che “precipitano ciecamente da un’ora sull’altra”. Davvero, come sosteneva Heidegger, viviamo in un’epoca nella quale ”il pensiero calcolante ha soppiantato il pensiero meditante”. Quella domanda interroga anche noi, che abbiamo fatto della tutela ambientale una delle ragioni fondative del PD pensando che il contributo che poteva portare il partito nuovo nel desolante panorama ecologico della politica in Italia fosse necessario e possibile. Si può fare è una gran bella parola d’ordine. Poi, subito dopo, adesso va riempita di contenuti e di iniziative. James Joyce, nel suo Ulisse, scrive del luogo in cui giacciono in catene “le infinite possibilità che non si realizzarono mai”, chiedendosi se fossero state reali. Nel nostro caso lo sono, ma il tempo precipita e dobbiamo sciogliere quelle catene. L’ombra dei ministri ombra, proiettata sugli schermi della politica italiana non ci ripara dalla critica dei bisogni e non ci solleva dalla necessità di dotarci di programmi e progetti coinvolgenti.
Un partito non è ciò che dice di essere, è ciò che fa e che gli viene riconosciuto di essere. Il PD non è un partito ecologico per (auto)definizione e in Italia c’è uno spazio vuoto da riempire. L’ambientalismo politico conosciuto è quello che gli italiani hanno sanzionato alle elezioni. Quello nuovo, annunciato, il nostro, malgrado gli sforzi degli ecologisti democratici, non c’è ancora, non è percepibile progetto dell’opposizione e vive solo saltuariamente nell’azione di governo sui territori. E’ un problema serio, per il PD e per l’ambiente, esposto ai venti dell’incultura, dell’insensibilità, dell’irresponsabilità, della revanche speculativa. Non ho nostalgia di certo ambientalismo e ancor meno dei suoi dirigenti. Il catastrofismo è l’altra faccia dell’indifferenza, ha in comune con essa l’incapacità di agire qui ed ora per risolvere i problemi. Altro è la consapevolezza, che è levatrice della responsabilità.
Su quella esperienza dell’ambientalismo politico in Italia, (altrove, in Germania, con altre rappresentanze, il rapporto è stato positivo), sulle sue responsabilità per i ritardi del Paese bisogna dare un giudizio ponderato perché è anche in rapporto ad essa, in ragione della sua prolungata egemonia tematica, che il quadro dei protagonisti politici si sta ridefinendo. Ecologismo del sì, ambientalismo del fare, sono formule animate da un’esplicita volontà di distinguersi da un’esperienza considerata negativa. Forse oltre la reale incidenza. I problemi irrisolti dell’Italia hanno molti genitori.
La sindrome NIMBY è trasversale, anche in Campania, anche in val di Susa, anche a Ravenna. Questo fenomeno esiste perché nessuno ha mai lavorato veramente alla formazione di una seria, scientifica, responsabile cultura ambientale. Nessuna forza politica. La mancata realizzazione di ferrovie, linee marittime, metropolitane accusa un’intera classe dirigente. Non è vero che in questi anni in Italia non si è potuto fare nulla. Basta guardare le nostre città, le coste, il territorio. Basta scorrere i numeri, vedere i milioni di ettari di terreno agricolo sottratti alla loro destinazione. Basta leggere gli indici di edificabilità, raffrontarli con la Francia e la Germania. Molto è stato fatto, che non era necessario. E molto non è stato fatto, che si sarebbe dovuto fare. Cose buone che si sarebbero potute fare sono state, infine, impedite o rallentate da un estremismo ideologico. Questa è la proporzione.
Sovvertirne l’ordine sarebbe sbagliato e non aiuterebbe a fare meglio. Bisogna vigilare perché dietro questa lettura degli eventi, temo, si nasconde la tentazione di considerare non quell’esperienza ma la tutela dell’ambiente un impaccio di cui liberarsi. Meglio, forse, allora parlare di “fare ecologico”, di ecologia, di sviluppo sostenibile, senza bisogno di specificazioni. Una fase si è chiusa e per il nuovo ambientalismo devono parlare i comportamenti. Altri propongono paura, vincoli, ritorno. Noi dobbiamo essere speranza, liberazione, ragione, progetto. Convincente, attrattivo, plausibile, accessibile, vicino, appropriabile, motivante, mobilitante. Adesso. E’ l’isola che non c’è, ma che si può immaginare, costruire, far vivere. Adesso. Nel vivo di processi materiali, di condizioni strutturali che, dall’energia al cibo, all’acqua all’aria ci offrono l’occasione per ridisegnare il profilo della nostra civiltà, la gerarchia delle attenzioni sociali e delle sensibilità individuali.
Lo sviluppo sostenibile è una delle tessere centrali del mosaico identitario del PD.
Collochiamola.
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