Se il cuore del Paese non batte più per te

Sono appena rientrata da Bruxelles. Sono stata lì un paio di giorni per una missione programmata da tempo dalla commissione di indagine sulla contraffazione, ma la contemporaneità con Brexit, la seduta straordinaria del Parlamento europeo, il vertice dei capi di Stato e, nel momento esatto in cui atterravo di nuovo a Fiumicino, la notizia delle esplosioni all’aeroporto di Istanbul e della nuova terribile strage che ha colpito la Turchia e la quotidianità di viaggiatori e turisti uccidendo e ferendo decine e decine di persone non molto più in là dell’Adriatico, mi hanno fatto attraversare giorni immersa nella tensione di questo nostro continente europeo.

Tensione in termini di sicurezza, testimoniata da misure impressionanti a ogni incontro e riunione con metal detector, documenti, firme, telecamere, controlli, soldati, strade chiuse e mezzi militari. Tensione per l’incognito. Anche i colloqui dei giorni scorsi, dai dirigenti delle direzioni generali alle rappresentanze del mondo economico italiano a Bruxelles fino allo stesso neo ambasciatore italiano, ci hanno fatto capire in modo molto evidente quanto Brexit abbia colto tutti impreparati, sia per le ricadute economiche che per quelle politiche. E non so se saranno più pesanti le prime o le seconde.

Non sono in grado di fare analisi compiute. Si è parlato di una scissione generazionale, corretta dai dati dell’astensione, e poi di una spaccatura territoriale: Londra, la Scozia, il nord per il “Remain”, il resto per il “Leave”. La City per l’Europa, i quartieri popolari, lontani dalla burocrazia di Bruxelles, per l’autonomia, anche se senza direzione. Un errore dietro l’altro da parte di Cameron, che conclude qui la sua carriera di uomo di Stato, ma conservatori e laburisti sono dilaniati dai risultati.

Una cosa è certa: la fragilità del modello europeo, in una fase in cui sarebbe straordinariamente necessario un suo rafforzamento, ci rende più deboli e vulnerabili e non possiamo che essere tutti al fianco del Presidente del Consiglio in questi giorni, nelle sue presenze a Bruxelles, ai vertici e nella condivisione di misure per gestire una situazione del tutto inedita.

Non posso, però, non accendere i riflettori sulla disfatta elettorale di una settimana fa. Non trovo termini più adeguati per descrivere un risultato andato ben peggio delle nostre più fosche previsioni. Nei 143 comuni al voto sopra i 15.000 abitanti, passiamo come forza di governo da 90 a 45. Il M5S va al ballottaggio in 20 Comuni e ne vince 19. Passiamo da 20 a 8 capoluoghi di Provincia. In Toscana perdiamo 5 ballottaggi su 6. Un deserto nella provincia di Arezzo, in cui dopo il capoluogo e Anghiari, perdiamo Sansepolcro e Montevarchi. Per non parlare di Sesto…

Cosa è successo? Cosa è collassato? Sono tra coloro che ama capire i numeri, analizzare le ragioni e non mi avventuro in analisi taglia e cuci, ma l’evidenza di Roma e Torino in cui teniamo e vinciamo solo in quartieri come Parioli e centro storico e svaniamo o quasi nei quartieri del disagio, ci racconta di un tracollo delle nostre radici. Realtà, questa, non so quanto recuperabile. Potrei parlare, poi, del nostro insediamento generazionale: secondo l’Istituto Cattaneo a Roma, nelle fasce di età fino ai 54 anni, siamo la terza forza politica e diventiamo la prima solo sopra i 60 anni. Abbiamo vinto ad Altopascio e confermato i nostri comuni anche in provincia di Siena. Piccole dimensioni in cui siamo ancora riconoscibili e dove regge un radicamento, ma possiamo mettere tutto questo sull’altro piatto della stessa bilancia pensando che possano fare da contrappeso?

Nei prossimi giorni la direzione nazionale si confronterà su questi risultati, ma dico da subito che ho trovato insufficienti, e in qualche caso imbarazzanti, le parole di chi ha voluto classificare questo quadro, compreso quello toscano, come la somma di “casi locali”. Divisioni, personalismi e liste civiche hanno contribuito certamente a farci perdere, ma quando hai smarrito il sentimento tra te e il Paese, la faccenda è molto più seria e sarà il caso di scavare a fondo e correggere la rotta velocemente.

Ho sempre pensato che si vince o si perde assieme. Non mi piace allocare le responsabilità solo su qualcuno e vedo anche una certa pratica diffusa di smarcamento da parte di importanti protagonisti, ma è certo che in questi anni si è liquidato molto velocemente storia, riferimenti culturali, significati, bandiere, sedi e persone, spesso senza costruire niente di nuovo se non alcune parole d’ordine, quasi ossessive nel loro ripetersi, ma assai fragili di fronte a problemi che chiedono risposte vere e non improvvisazioni o comparsate nei talk show. Se liquidi tutto, lasci il vuoto.

Per quanto tempo mi sono sentita ripetere che alla sinistra serviva un leader carismatico. Bene il leader adesso ce l’abbiamo, ma basta il leader, basta essere al Governo o serve anche un progetto grande, condiviso, comune e profondo in cui il tuo popolo possa riconoscersi? Un progetto che non contabilizza solo le leggi approvate e le riforme, tra cui ottime cose, ma che vive e pulsa con un popolo vero. E per popolo, perdonatemi se intendo qualcosa di più vasto della Leopolda.

Se è vero che 11 milioni di italiani non fanno più prevenzione, tu, sinistra, devi stare lì. Se 15 milioni di italiani vanno a votare per le trivelle, non puoi dire “Ciaone”, perché 15 milioni sono tante persone e non vanno a votare per farti un dispetto. Se i numeri della ripresa industriale e occupazionale ti danno qualche buona risposta ma non sono ancora quelli che avresti voluto, devi provare a modificare, aggiustare, perché questo ci si aspetta dalla forza politica che ha avuto e ha ancora l’ambizione di rappresentare lo snodo, il perno del cambiamento e della rinascita del Paese.

Io non so se chi ci ha lasciato, lo ha fatto per sempre. Ma so che ci hanno lasciato in tanti, che c’è da ricostruire e far ripartire il Pd, che la strada da percorrere è la ridefinizione del perimetro del centrosinistra, quello che a Milano ha vinto tenendo assieme – anche grazie all’intelligenza di Sala e del Pd milanese, degli sconfitti delle primarie che si sono rimboccati le maniche – dal centro alla sinistra estrema, per la Milano del futuro. Se, invece, non rappresenti più le periferie, quelle delle città, dei diritti, dei redditi e dei bisogni, vuol dire che non parli più agli ultimi e che lo fa qualcun altro, perché gli spazi vuoti vengono presto occupati. E se a tutto questo aggiungi un Verdini sul palco del Pd, in quel caso hai fatto una gran confusione e non puoi che andare a sbattere.

Lo so. C’è molto altro. La coalizione di tutti contro il Pd dentro un sistema tripolare. L’astensione. La difficoltà del governare e un quadro di disgregazione e riaggregazione politica che riguarda anche altri Paesi europei, ma io credo in maniera convinta che prima di tutto, per recuperare, devi dirti la verità. È la cosa più onesta che conosco per affrontare una crisi.

La verità. Un cambio di rotta e la capacità di rendere più forte e coesa la tua comunità, perché da lì devi ripartire. Dalla tua comunità, e con lei, con i riferimenti culturali di una sinistra che non ha paura di riconoscersi e di evolvere. Lì puoi provare a ricostruire quel sentimento che oggi hai smarrito. Un sentimento fondamentale per affrontare l’incognito e le tensioni contemporanee.

Ps: Il 30 giugno a Poggibonsi si apre la festa de l’Unita. Una delle poche feste che andrà avanti per 24 giorni. Anche quest’anno con fatica, sotto un caldo infernale, decine di uomini e di donne, dopo il loro lavoro, dedicheranno il loro tempo libero a costruire e gestire bar, ristoranti, libreria e a organizzare dibattiti. Sono molto contenta che quest’anno Poggibonsi ospiti una festa nazionale dedicata ai temi dell’economia. Ci saranno Filippo Taddei, Tommaso Nannicini, Teresa Bellanova e molti altri. La festa ci sarà perché c’è un popolo sano e vero, che continua a tenere per le redini radici importanti. Vorrei riuscissimo tutti assieme ad esserne fieri. Io lo sono.

Susanna

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